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Perché continuo a scrivere: 300 articoli dopo

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Tempo di lettura: 6 minuti

Ridendo e scherzando ecco qui l’articolo 300. Mi sembra un numero incredibile, quando ho deciso di iniziare a pubblicare con regolarità non mi sarei aspettato di riuscire a mantenere l’impegno per più di 4 anni e 300 articoli. Essenzialmente questo articolo è un grande ringraziamento a voi che leggete e mi date fiducia. Ma ne approfitto anche per fare una riflessione: perché vale la pena continuare a scrivere ma, soprattutto, cosa ho imparato e cosa questo esercizio di scrittura mi ricorda costantemente. in questo articolo ne approfitto per ringraziare Carla che anni fa mi ha contagiato col suo mantra “done is better than perfect”!

Buona lettura e ancora grazie!

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300 articoli: cosa ho imparato

Inizialmente ho vissuto il blog con molta leggerezza: “Quando ho qualcosa che mi ispira scrivo”.

Risultato: un post ogni morte di papa. Ogni volta l’idea non era abbastanza buona, ogni volta c’era un ottimo motivo per posticipare o “pensarci meglio”. Insomma avevo un blog letteralmente morto. Poi ho deciso di cambiare approccio “scrivo un articolo ogni 6 giorni. Cascasse il mondo”. Da lì è cambiato tutto ed il blog è diventato, oltre che un bel passatempo anche un ottimo esercizio di leadership o meglio di auto-leadership. obbligarmi a scrivere ogni 6 giorni è un esercizio a volte davvero difficile ma terribilmente utile che mi insegna tanto. Ecco cosa ho imparato in questi 300 articoli.

La disciplina della deadline: scrivere con costanza

Il primo motivo per cui continuo a scrivere è questo: la disciplina è un muscolo, e la mia deadline è la palestra. Quando ho deciso che ogni sei giorni sarebbe uscito un nuovo articolo, non avevo previsto quanto quella scelta mi avrebbe cambiato. La motivazione è capricciosa, va e viene, ma la scadenza resta sempre lì, implacabile, ed è proprio questa costanza a trasformarsi in un allenamento continuo.

Scrivere ogni sei giorni non significa avere un rituale rassicurante, tipo “scrivo il venerdì sera”. Significa, al contrario, non avere un pattern. L’uscita cade in giorni sempre diversi, spesso in mezzo a settimane in cui ho già troppi impegni sovrapposti. Ci sono momenti in cui riesco a portarmi avanti, certo, ma non è raro che mi ritrovi a scrivere a notte fonda pur di rispettare la deadline del giorno dopo. È come avere un esercizio a difficoltà variabile: alcuni round sono semplici, altri arrivano esattamente quando avresti meno tempo e meno energie.

Questa “costanza nella scrittura” mi ha insegnato a organizzarmi meglio, ma anche ad accettare che non posso controllare tutto. Mi ha insegnato a non aspettare l’ispirazione, ma a catturare subito qualsiasi idea mi passi per la testa: la scrivo immediatamente su Notion, così quando il tempo scarseggia ho sempre un piccolo serbatoio di spunti pronti. E ogni volta che pubblico un articolo — puntuale, cascasse il mondo — mi ricordo perché questo esercizio continuo è diventato una delle parti più solide della mia vita.

Done is better than perfect

Il secondo motivo per cui continuo a scrivere è semplice da capire ma difficile da accettare: done is better than perfect.
E per me è stata una lezione durissima. Io tendo a essere molto severo con ciò che produco: ci sono articoli che, appena li rileggo, mi sembrano poco incisivi, quasi inutili, come se non avessi detto davvero nulla di nuovo. E infatti capita che li pubblichi con quella sensazione addosso… quella voce interna che sussurra: “Potevi farlo meglio”.

La parte sorprendente è che spesso sono proprio quei pezzi lì — quelli che giudicavo con più durezza — a rivelarsi utili per chi legge. Arrivano messaggi di persone che hanno evitato una truffa grazie a due righe che a me sembravano banali, oppure scopro che qualcuno non conosceva un’impostazione, un’app, un passaggio che io davo per scontato. È in quei momenti che mi ricordo quanto siamo pessimi a valutare il nostro lavoro mentre lo stiamo facendo.

Scrivere ogni sei giorni ti obbliga a mollare la presa sul perfezionismo. Non puoi limare all’infinito, non puoi rimanere bloccato su un dettaglio, non puoi aspettare quel momento ideale che non arriva mai. Devi pubblicare, punto. E proprio questo gesto — semplice, concreto, quasi banale — diventa un addestramento: ti insegna che la qualità non nasce dall’ansia di controllo, ma dalla continuità. Migliori perché fai, non perché aspetti l’idea perfetta.

Ed è anche un promemoria personale: il mio giudizio non è affidabile quanto penso. I lettori non cercano il testo “perfetto”, cercano il testo utile. E quando lo trovo tra le righe di qualcosa che a me sembrava mediocre, capisco perché continuo a farlo.

I bias sono sempre in agguato

Il terzo motivo per cui continuo a scrivere è legato a un bias che mi accompagna da sempre, anche quando faccio finta di non vederlo: la maledizione della conoscenza. È quel meccanismo subdolo che ti fa credere che ciò che sai tu lo sappiano tutti. Che certe truffe siano “ovvie”, che certe impostazioni del telefono siano “banali”, che certe app siano “scontate”. E invece no.

Mi capita spesso di partire da un’idea minuscola: un dettaglio che ho scoperto per caso, un trucco che mi sembra quasi ridicolo da spiegare, o l’ennesima truffa da due euro che ormai riconosco in un secondo. E lì scatta il pensiero automatico: “Ma dai… questa cosa è inutile da scrivere. La sanno tutti”. Poi pubblico lo stesso, magari perché sono vicino alla deadline o semplicemente perché ho deciso di fidarmi del processo, e puntualmente succede qualcosa che smentisce il mio giudizio: arrivano messaggi di persone che non conoscevano quella funzione, o che stavano davvero per cadere proprio in quella truffa, o che grazie a quell’articolo riescono a spiegare qualcosa a un parente meno esperto.

È in questi momenti che mi ricordo quanto la maledizione della conoscenza sia potente. Ti fa vivere in una bolla in cui tutto sembra ovvio. Ti fa credere che ciò che sai sia patrimonio universale, quando invece non lo è affatto. E scrivere diventa un esercizio di umiltà: non posso sapere cosa ti serve oggi, cosa ti manca, cosa stai cercando. Posso solo condividere ciò che conosco e lasciare che sia il lettore a decidere se quell’informazione gli cambia la giornata o gli evita un problema.

Continua a sorprendermi quanto spesso gli articoli “piccoli”, quelli che io reputo quasi imbarazzanti da quanto mi sembrano scontati, diventino i più utili. Ed è forse questa la ragione più forte per cui continuo: perché questo blog mi ricorda che il sapere non è mai distribuito in modo uniforme, e che condividere non è mai inutile. Anche la cosa più semplice, raccontata nel momento giusto, può diventare un aiuto enorme per qualcuno.

Aprire un blog ti aiuta a crescere: prova!

Dopo 300 articoli ho capito che aprire un blog è uno dei modi più furbi per allenare la leadership…e alla fine è un esercizio gratuito!

Perché quando rispetto una deadline anche nei giorni in cui vorrei solo dormire, sto allenando la disciplina. Quando pubblico qualcosa che non considero perfetto e scopro che non muore nessuno (anzi: magari è utile), mi ricordo quanto a volte io sia critico con me stesso in modo immotivato. E quando mi accorgo che ciò che per me è banale per altri è illuminante… ecco, lì è sempre incredibile riscoprire come dia per scontate tonnellate di idee.

In sintesi: vuoi allenare la leadership? Non serve un palco.
Serve una pagina bianca… e la faccia tosta di riempirla.

Grazie a tutti!

Ovviamente, tolti gli insegnamenti di leadership “autoinflitti” il motivo più forte che mi spinge a scrivere siete voi che leggete e mi supportate. In questi 300 articoli è capitato più volte di ricevere feedback su truffe evitate grazie ad un articolo, o idee su nuovi articoli. Questi piccoli gesti di affetto mi motivano più di tutto a continuare. Quindi grazie di cuore per avermi letto in questi 300 articoli e come sempre:

ci vediamo tra 6 giorni, cascasse il mondo!

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Alessandro

Ingegnere, musicista e public speaker per diletto. Appassionato di programmazione, tecnologia e qualsiasi cosa possa definirsi anche minimamente nerd!

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